La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza e, come tale, comporta un progressivo e decadimento delle funzioni cognitive. In Italia, secondo le stime, circa 1 milione di persone soffrono di demenza e circa 3 milioni sono coinvolte direttamente o indirettamente nell’assistenza di persone con demenza.
Nonostante ciò, la M. d’Alzheimer è spesso sottostimata, confusa con altre forme di decadimento cognitivo e di conseguenza molte volte è affrontata in modo inadeguato sia da un punto di vista terapeutico che assistenziale. Capita di sentire dire che la M. d’Alzheimer abbia un esordio acuto. Niente di più falso. La  presentazione dei sintomi clinici della malattia è spesso subdola, caratterizzata da manifestazioni sintomatologiche non troppo evidenti. Per questo motivo spesso agli esordi questa malattia viene confusa con sintomi generici di tipo psicopatologico (ansia, depressione) o addirittura con una normale evoluzione fisiologica dell’invecchiamento.

Esiste quindi una fase iniziale, definita prodromica, della M. di Alzheimer che è difficile da individuare. I segni caratteristici di questa fase sono in genere rappresentati da episodici deficit attentivi e/o mnestici e sindromi ansioso-depressive.  L’identificazione della fase prodromica della M. di Alzheimer dipende molto dall’abilità e dall’esperienza del medico di evidenziarla anche in momenti casuali, nei quali ad esempio il paziente si rivolge a lui per un controllo di altro tipo. In questa fase sono necessarie una accurata e completa anamnesi in presenza di un familiare; una valutazione completa e approfondita del funzionamento cognitivo (attenzione, memoria, linguaggio…); una valutazione degli aspetti affettivi (ansia, depressione); l’esecuzione di esami neuroradiologici (TAC, RMN…); e una valutazione funzionale delle abilità di vita quotidiana. È fondamentale sapere che in questa fase le valutazioni brevi del profilo cognitivo (MMSE, MoCA, Clock Drawing Test…), seppur utili, esitano spesso con numerosi falsi negativi, sottostimando la presenza di un disturbo cognitivo.

I segni della fase prodromica vengono spesso sottovalutati sia dai familiari che dai medici di medicina generale o specialisti, determinando un ritardo nella diagnosi e nel trattamento, riducendo la parentesi di autonomia che il trattamento farmacologico e non potrebbe contribuire a mantenere. Le ragioni di tale superficialità sono molteplici e possono essere rintracciate da un lato in un senso di frustrazione da parte di medici, derivante dalla mancanza di una terapia farmacologica risolutiva, e dall’altro possono rintracciarsi in atteggiamenti di negazione di pazienti e familiari. Molto spesso la responsabilità di ciò è interamente condivisa tra medici di medicina generale e geriatri o neurologi. Inoltre, in aggiunta al ritardo diagnostico assistenziale, tutto questo determina il fornire grossolane informazioni ai familiari, che non vengono, quindi, messi nella condizione di acquisire né le nozioni adeguate rispetto alla malattia, né gli strumenti necessari per affrontarla. Chi ne paga il prezzo è il paziente e il suo nucleo familiare.

In questo contesto, la malattia procede esclusivamente (o quasi) nell’ambiente domestico che la gestisce con gli strumenti in suo possesso, spesso inadeguati ed insufficienti. L’approssimativa (o addirittura mancata) assistenza fornita alla persona malata e ai suoi familiari può condurre ad un incremento della conflittualità tra i membri del nucleo familiare; ad un maggiore ritiro sociale del nucleo stesso; a sentimenti di rabbia, vergogna o colpa esperite sia dal malato (nelle prime fasi della malattia) che dai familiari; e sfocia in un profondo senso di abbandono.

In conclusione, la riduzione dei pregiudizi su strumenti diagnostici e proposte terapeutiche restituirebbe motivazione ai medici che intercettano una persona con disturbi cognitivi e ridurrebbe il senso di impotenza di malati e familiari derivante dalla convinzione di essere davanti ad un male le cui caratteristiche rendono inutile eseguire esami e impegnarsi in percorsi terapeutici.